Facebook: la banalizzazione di tutto

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L’avvento dei social network è stato interpretato dalla massa popolare dell’intero pianeta come la più grande ventata di indipendenza nella storia dell’intera umanità.

Ogni essere umano dotato di computer ha ritenuto infatti, semplicemente registrandosi su Facebook, di essersi trasformato in editore di se stesso, scrittore, giornalista freelance, opinionista, giudice qualificato, in piena libertà e, soprattutto, senza spendere un centesimo.

In minima parte è anche vero, ma è nelle “dimensioni” la vera differenza, come dire che ogni uomo possa ritenersi potenzialmente un Rocco Siffredi pur avendo prerogative fisiche del tutto standard.

La vera forza divulgativa dei social network, a parte la pubblicità (chissà fino a che punto disinteressata) che attualmente stanno facendo in loro favore le televisioni  pubbliche e private, sta proprio nell’aggregazione, nella capacità di raggruppare utenti, di generare “unioni”, di mettere sotto un’unica “etichetta” tantissima gente con uguali intenti o simili affinità.

La massiva divulgazione dei dati pubblicati (o “postati” come si dice convenzionalmente) è diventata certamente la vera pietra miliare della comunicazione, ma non è assolutamente ciò che molti utenti sono convinti che sia, perché presentarsi “da soli” non serve a nulla e si resta “isolati” pressoché come prima.

Chi accede al proprio spazio personale su un social network, per fare un esempio, o alla sua pagina gestita in qualità di amministratore, non si espone immediatamente di fronte a una platea globale, come sono convinte purtroppo molte persone, ma inizialmente si trova proprio solo con se stesso, come quando si osserva di fronte lo specchio del proprio bagno, piano piano dovrà dunque costruirsi un suo “pubblico”, quelli che il social network “Facebook” chiama più semplicemente “amici”.

Col tempo, e in base alle effettive conoscenze in campo “reale” (senza coinvolgere gente sconosciuta perché ciò è severamente vietato dalla policy di Facebook), questa platea comincia a diventare sempre più grande, ma il nostro pubblico resterà sempre nell’ordine di grandezza del numero delle nostre effettive relazioni sociali.  Quindi se vogliamo fare i “predicatori” o gli opinionisti in termini più ampi e più prossimi al “globale”, dobbiamo scegliere altri canali o aggregarci in gruppi “virali” che possono invece espandersi esponenzialmente, proprio per la loro capacità di attingere contemporaneamente ai “bacini di utenza” di ogni singolo componente del gruppo che agisce da fattore moltiplicativo della diffusione.

In poche parole, chi si sente un padreterno solo perché è iscritto a Facebook e pubblica le proprie idee sul suo diario senza avere tuttavia una platea sufficiente, è come se “parlasse da solo” o se tentasse, “pescando” nel proprio acquario, di catturare attenzione oceanica.

Anche i numeri dei commenti o dei  “mi piace” sui post di una determinata pagina possono facilmente trarre in inganno. Intanto i commenti per essere “validi” devono risultare coerenti al tema proposto nel relativo articolo e qualitativamente efficaci al dibattito; inoltre le “risposte” ad un commento andrebbero inserite sotto al relativo commento, non come ulteriore intervento, perché una eventuale replica alla replica trasformerebbe il “campo-commenti” in un “campo” da tennis o in un tavolo di ping pong (quindi con due o 4 giocatori al massimo)  invece che di un tavolo di discussione multipla.

Poi, una pagina con soli 50 iLike che però rispondono tutti e con regolarità ad ogni post, non è comunque paragonabile, come potenzialità ed effettiva forza di divulgazione, a una pagina con 10.000 fan, anche se in massima parte leggono solo senza intervenire (modalità detta “silenziosa“, ultimamente molto utilizzata, anche se va in senso contrario allo spirito di una comunità virtuale dove i “guardoni ignavi” che rifiutano il confronto o per alterigia o per atavica scadente autostima, non sono di certo benvoluti) .

Insomma i social network sono giganteschi “recipienti” stracolmi di dati, e il massiccio utilizzo di questi strumenti, senza un minimo di conoscenza specifica del loro funzionamento, serve a ben poco e resta un’attività “fine a se stessa“; certo “chi si accontenta gode“, e coloro che si avvalgono dei social in ambiti ristretti illudendosi invece di “parlare” col mondo, non si pongono alcun dubbio in merito alla reale efficacia di questo loro impegno, ma in fondo: “contenti loro, contenti tutti“.

Ben altra cosa è invece l’aggregazione, l’inserimento in qualità di “follower” (sostenitore) all’interno di entità già costituite che hanno raccolto nel tempo ampio consenso popolare. In quest’ultimo caso la visibilità degli interventi è certamente da rapportare ai grandi numeri, non alla solita, monocorde e circoscritta cerchia di “amici”…. ma, in questa eventualità, viene a mancare l’autoesaltazione da protagonismo puro di cui sopra, quella mera illusione di essere al centro dell’attenzione globale per la propria essenza diretta, magari per aver iniziato una discussione con un post provocatorio all’interno di un proprio spazio esclusivo, dove il “titolare” ufficiale è il “padrone assoluto” che ha il potere di accogliere o cancellare i propri seguaci, quasi che quel diario fosse un castello feudale in cui il “signore” regna sovrano; un potere virtuale dunque, ma pur sempre un “potere” da opporre a quello, ben più reale e oppressivo, che si subisce passivamente da cittadini, contribuenti e uomini del popolo.

Quantità immense di foto, video, immagini di opere d’arte, brani letterari vengono postati giornalmente in un turbinio pirotecnico di dati informatici che “dura” meno di un giorno, se non persino poche ore. Poi tutto viene fagocitato dagli archivi dei social network in funzione delle varie date e ore di pubblicazione; tutto va in coda, su fondo pagina, dentro i tasti degli anni precedenti, in un enorme guazzabuglio che fa sparire “il tutto“, pur mantenendolo in una sorta di “coma farmacologico” nei bassifondi virtuali dei social network.

Non parliamo poi degli “eventi“, tutto ciò che implica coinvolgimento dei gruppi di amici, magari per festeggiare un semplicissimo compleanno, o per celebrare la vittoria in un torneo di burraco, viene trasformato in “EVENTO“.

Prima un “evento” era una circostanza attesa e auspicata sia dai relativi protagonisti, sia da folte schiere di pubblico; oggi viene invece banalizzato e annichilito da una serie infinita di iniziative personali di dubbio interesse popolare e di discutibile qualità.

Diventa evento (scusate il gioco di parole) persino la caduta del primo dentino di nostro figlio, certamente un momento storico per noi genitori, ma di sicuro non il più importante degli appuntamenti mondani per lo zio della cognata del consuocero del nostro panettiere di fiducia, anche se risulta nell’elenco dei nostri “amici” fin da quando ci siamo registrati per la prima volta su Facebook.

Ogni evento sparisce nel pubblico oblio già il giorno stesso della sua inaugurazione, spazzato via dal “vento elettronico” dei massicci flussi informatici successivi … e forse, chissà, proprio per questo viene chiamato “e-vento”.

I social, con i loro automatismi e i loro “canti da sirene”, ci stanno “massacrando” la personalità, illudendoci di essere sempre grandissimi protagonisti della vita pubblica,  ma mantenendo invece pressoché inalterati i nostri rapporti sociali, conquistati senza l’uso del pc.

Per utilizzarli dunque nel migliore dei modi e per esaltarne la indubbia valenza, dovremmo considerarci meno “protagonisti” e più disponibili ad appartenere a una comunità, accantonando possibilmente l’inconfessato desiderio egocentristico di essere al centro dell’attenzione di tutti … nei social network non servono né i leader né i capitani di ventura, almeno lì conta il popolo.

Sergio Figuccia

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