Liberazione, una festa paradossale?

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Certo non c’è più il nazismo, non c’è più il fascismo e da quel 25 aprile del 1945 sono passati ben 70 anni, ma oggi siamo proprio nelle condizioni giuste per poter festeggiare la “Liberazione”?

Certo l’anniversario si riferisce a un evento importantissimo per la nostra storia, che è stato, rimane e resterà per sempre la più bella dimostrazione di quanto siano fondamentali per l’avvenire di una nazione la coscienza popolare e la volontà di riscatto; ma oggi questo festeggiare la “libertà” dall’interno di un’altra gabbia, magari più indorata, forse meno palese, ma in egual modo ossessiva e opprimente, appare pressoché un paradosso reso necessario dagli obblighi della memoria storica e del mantenimento delle tradizioni.

Siamo un po’ come gli uccelli di una voliera che periodicamente si stringono fra loro, su un rametto secco incastrato fra le sbarre, e guardano tutti insieme fuori dallo loro “prigione” quel paesaggio naturale, fatto di alberi, di sole e di cinguettii di altri esseri liberi, che una volta è stato anche il loro habitat, la loro vita.

Siamo oggi un paese “occupato”, una “democrazia” dittatoriale, una nazione soffocata da un’entità monetaria che non ha dunque nulla di “umano”, una “cosa” demenziale brandita come un’arma da un gruppo di potere che si è insediato al posto di quello scacciato nel ’45 dalla generazione partigiana dei nostri genitori. Siamo dentro un’altra gabbia, oppressi dai vessilli inneggianti l’euro e la corona di stelle, anziché da quelli con le svastiche del terzo reich e i fasci di mussolini.

D’accordo festeggiamo la “liberazione” del 1945, è giusto farlo per rispetto di chi ha dato la vita per riconquistare la propria dignità e per donarne una a un popolo che 50 anni dopo se l’è venduta in blocco con la propria valuta, per acquistare uno stupido sogno trasformatosi subito in un incubo.

Festeggiamo pure il 25 aprile, ma festeggiamolo da prigionieri, non da uomini e donne liberi, perché non siamo più tali e perché non abbiamo più neanche lontanamente quella “fierezza” e quell’orgoglio che dimostrarono, 70 anni fa, coloro che ci liberarono da un’oppressione che a tutti era invece apparsa irreversibile.

Sergio Figuccia

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